Spiritualità Salesiana

SPIRITUALITÀ GIOVANILE SALESIANA un dono dello Spirito alla Famiglia salesiana per la vita e la speranza di tutti

UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO

La nostra vita è piena d’interrogativi. Ciascuno ha i suoi. Ce ne sono di quelli che ci vengono dalla cultura in cui viviamo che ci vende un mucchio di desideri, per smerciare meglio i suoi prodotti. Alcuni sono tutti nostri, perché ci arrivano improvvisi da pezzi del nostro vissuto, dalle gioie e dalle angosce che ogni tanto l’attraversano. Altri, poi, li condividiamo in un giro d’amici che raccoglie ormai tantissima gente. A pensarci bene, sembrano frammenti d’umanità, domande che ci premono addosso per la semplice ragione che viviamo, speriamo, amiamo e, purtroppo, moriamo. Molti di questi interrogativi sono un grido di dolore, che brucia la nostra esistenza, per le troppe cose che avremmo il diritto di possedere e che invece ci sono rubate con violenza.

Nessuno ce la fa a resistere tranquillo, quando l’inquietudine gli martella dentro. Per questo cerchiamo, con trepidazione, risposte ai nostri interrogativi.

Don Bosco e Madre Mazzarello hanno speso tutta la loro vita per dare una risposta, seria e concreta, agli interrogativi dei ragazzi e delle ragazze del loro tempo. Forse erano diversi dai nostri, ma ne avevano di grossi anche loro.

E adesso? Possiamo continuare con le stesse loro risposte o dobbiamo cambiare registro?

Le beatitudini: la risposta di Gesù ai nostri interrogativi

Di risposte agli interrogativi che salgono dalla nostra vita, ce ne sono tante in giro: troppe per scegliere con un po’ di tranquillità. Che fare?

Il Vangelo suggerisce una risposta complessiva a tutti questi interrogativi. Li afferra tutti, con l’unica grande preoccupazione di farci scoprire che Dio è un Padre che ci ama, ci vuole pieni di felicità, confortati nella speranza, impegnati a vivere veramente da figli suoi. Ha una sua logica tanto precisa che può persino sembrare strana.

L’iniziativa la prende Dio. Ci chiede di sperimentarlo, crederci e scommetterci sopra. Ci assicura un amore che accoglie, che salva, che riempie di vita… ma dice, senza mezzi termini: la misura dell’amore è sacrificare la propria vita per coloro che si amano, senza incertezze e senza troppi “se” e “ma”.

Da questa prospettiva, gli interrogativi che attraversano la nostra esistenza cambiano tono. Siamo trascinati verso quel livello profondo in cui ci scontriamo con il senso della nostra vita e con la ricerca di ragioni per sperare, oltre il dolore e la morte.

Chi sono io… se Dio mi ama senza neppure verificare se mi merito il suo amore? Quando sono davvero “vivo”? La felicità che cerco disperatamente… qual è? E Dio, quella persona strana che esige di essere amato nell’amore con cui serviamo gli altri… chi è?
A tutte queste domande Gesù ha dato una risposta così sconvolgente che verrebbe voglia di chiudere il libro, se non fossimo convinti che, prima di raccontarle, Gesù ha vissuto lui per primo le “beatitudini”.

“Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio, perché Dio offre a loro il suo regno.
Beati quelli che sono nella tristezza, perché Dio li consolerà.
Beati quelli che non sono violenti, perché Dio darà loro la terra promessa.
Beati quelli che desiderano ardentemente ciò che Dio vuole perché Dio esaudirà i loro desideri.
Beati quelli che hanno compassione degli altri, perché Dio avrà compassione di loro.
Beati quelli che sono puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati quelli che diffondono la pace, perché Dio li accoglierà come suoi figli.
Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio,
perché Dio darà loro il suo regno” (Mt 5,312).

Le beatitudini sono una strana parola sulla vita e sulla felicità. Seducono con il fascino delle promesse e poi inchiodano in pretese dure e insolite.
Le beatitudini sono la vita di Gesù per la felicità e la libertà d’ogni uomo che soffre, l’eco della sua potenza che fa nascere vita dove c’è morte per annunciare chi è Dio.

Don Bosco e Madre Mazzarello, un dono di Dio per i giovani

E’ possibile proporre le beatitudini a chi ha fame, si sente morire dentro, a chi cerca amici e solidarietà, a chi s’interroga sul senso della propria vita e si chiede se Dio ha qualcosa da dire alla sua voglia di felicità?

Se l’è chiesto un giorno anche un grande amico dei giovani.
Don Bosco, insoddisfatto dei modelli in circolazione, ha provato a scrivere il Vangelo delle beatitudini per i giovani, soprattutto per i più poveri, quelli cui nessuno di solito aveva tempo per pensare. Si è lasciato ispirare da un grande santo, cui era tanto affezionato da servirsene per dare un nome ai suoi figli: San Francesco di Sales.

Don Bosco ha trascinato nella sua passione un mucchio di gente. Prima fra tutti Maria Mazzarello. A Don Bosco e a Maria Mazzarello si sono uniti alcuni giovani e ragazze coraggiose che poi si sono chiamati “salesiani” e “figlie di Maria Ausiliatrice”. Alla fine, n’è venuta fuori una storia bellissima, che ha riempito di vita e di speranza tantissima gente.

I giovani che arrivavano a Valdocco o a Mornese “si sentivano immediatamente avvolti da un clima di spontaneità, di gioia e di festa che coinvolgeva tutti”. Era un’esplosione di vita cui non si poteva resistere a lungo. Questi giovani, poveri e spesso orfani almeno di speranza, scoprivano continuamente che don Bosco e Maria Mazzarello erano un dono del cuore di Dio: un modo concreto per raccontare a loro il vangelo delle beatitudini.

A Valdocco e a Mornese si respirava qualcosa che veniva da tanto lontano. La Scrittura è piena del racconto della tenerezza di Dio per il suo popolo. L’amore di Dio si manifestava soprattutto nei confronti dei più poveri e spuntava, forte e improvviso, nei momenti di particolare difficoltà. Don Bosco diceva: “Quantunque Dio ami tutti, come opera delle sue mani, tuttavia, nutre un affetto particolarissimo per i ragazzi e si delizia di loro”. I ragazzi e le ragazze di Valdocco e di Mornese, nel volto concreto e quotidiano degli uomini e delle donne che avevano accettato di stare con don Bosco e con Madre Mazzarello, facevano esperienza che veramente Dio li amava molto ed erano importanti per lui.

Proprio com’è capitato tante volte nella storia della salvezza, nel clima di gioia, di amore e di accoglienza anche i giovani meno fortunati dal punto di vista spirituale si lasciarono coinvolgere da quell’esperienza speciale che sorprende e spinge a cambiare la vita. Conosciamo i nomi di alcuni di quei giovani: Michele Magone, Emma Ferrero, Francesco Besucco, Emilia Mosca.

L’allegria che regnava in Valdocco e a Mornese, era il frutto della passione dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice per i giovani, per la loro crescita nella gioia, nella libertà, nell’impegno.
Era espressione di un grande amore a Dio e alla vita.
Era soprattutto l’effetto di una valutazione positiva dell’esistenza in tutte le sue manifestazioni, che nasceva dalla certezza della presenza di Dio.
Don Bosco e Madre Mazzarello sono stati un dono grande di Dio per la vita, la gioia e la speranza di tutti. Lo sono stati in modo specialissimo per i giovani, soprattutto per i più poveri.
Essi hanno operato nella Chiesa con intensa e rinnovata responsabilità, perché hanno scoperto che Dio li ha chiamati a questo compito. Con la proclamazione solenne della loro santità e dei frutti grandi del loro servizio educativo (Domenico Savio, Laura Vicuña e tanti altri giovani “santi”), la Chiesa ha riconosciuto la validità di questo dono e ha confermato l’intuizione iniziale che lo Spirito Santo aveva visitato in modo carismatico la storia umana in favore dei giovani.

La spiritualità giovanile salesiana

Da oltre dieci anni, la Famiglia salesiana chiama l’esperienza spirituale, nata da questa ricerca, con una formula che ha fatto presto il giro del mondo: la “spiritualità giovanile salesiana”.
Spiritualità è parola antica ed è carica di tanti significati.

Una costatazione è però fondamentale. La spiritualità non è appannaggio solo di alcuni fortunati, più impegnati di altri nella vita cristiana; nemmeno si riferisce solo allo stile d’esistenza di chi abbandona la vita quotidiana per ritirarsi a vivere nei monasteri o in qualche luogo deserto. Spiritualità è vivere la vita quotidiana nel mistero di Dio.

Gesù ci ha rivelato che Dio è al centro della nostra vita. Il suo Spirito è all’opera e plasma di sé le persone, i gesti, le situazioni. Diventa uomo e donna “spirituale” colui e colei che sanno decidersi per fare di questa presenza, misteriosa e coinvolgente, il senso della propria vita, il motivo di riferimento di ogni scelta, il fondamento della speranza.
Questa convinzione ci permette di riconoscere che don Bosco ci ha affidato un progetto di spiritualità.

Incoraggiati dalle parole del Papa che ha riconosciuto in don Bosco un “maestro di spiritualità giovanile”, i suoi figli e le sue figlie accolgono la sua proposta e la riscrivono dentro le nuove sensibilità teologiche, antropologiche e educative. Nasce così un progetto di “spiritualità giovanile salesiana”. L’aggettivo “salesiana” qualifica la proposta di don Bosco all’interno dei tanti modelli presenti nella Chiesa. L’aggettivo “giovanile” ricorda che questo progetto si riferisce ai giovani e assume uno stile molto giovanile anche quando è vissuto da adulti, come sono i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice. Il sostantivo “spiritualità” richiama qualcosa di serio e impegnativo: la lunga tradizione scritta nella vita dei discepoli di Gesù. Vogliamo questa spiritualità “salesiana” e “giovanile” per viverla più intensamente, non certo per svuotarla di quelle esigenze di radicalità evangelica in cui sono vissuti tanti cristiani, prima di noi.

ALLA RADICE DELLA VITA CRISTIANA

Un buon progetto di spiritualità ha bisogno di radici. Cresce come albero grande rigoglioso solo se affonda in un terreno ricco e sicuro.
Quali radici?
La risposta è facilissima: la presenza di Dio. Ci mettiamo in cammino verso di lui perché lui, per primo, ci ha cercato e amato. La costatazione della “presenza di Dio” si traduce immediatamente nell’invito a vivere alla luce di questa presenza, riconoscendo che solo Dio è grande abbastanza da colmare la nostra sete di felicità. Dio è amore e ci avvolge del suo amore.
Questo è pacifico… eppure tutto si complica: basta uno sguardo alla storia della vita dei cristiani per constatarlo.

Nel nostro cammino verso Dio facciamo per forza i conti con la nostra vita quotidiana. La dobbiamo fuggire e controllare, come un elemento che purtroppo ci può sedurre con il suo fascino e con le sue preoccupazioni, fino ad allontanarci da quello che conta di più o, invece, possiamo “amare” questa nostra vita, convinti che la presenza di Dio ci dà pienamente questo diritto?

VIVERE IMMERSI NEL MISTERO

Colui che contempla stupito le cose meravigliose che Dio ha compiuto per lui in Gesù Cristo, ha una gran voglia di esprimere a Dio tutta la sua gratitudine nel vedersi tanto incredibilmente amato. Vive da uomo spirituale quando contempla il mistero in cui è immerso e risponde con uno stile rinnovato di vita.

Una domanda viene spontanea: cosa fare in concreto?
A questa domanda don Bosco rispondeva con una formula che riprendeva il modo tradizionale di vedere le cose, anche se esprimeva intuizioni originali: salvarsi l’anima.
La salvezza dell’anima era la preoccupazione d’ogni buon cristiano, la sua risposta all’amore di Dio. “A che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?”: se lo chiedeva ogni cristiano di fronte a tutte le scelte e decisioni importanti.

A noi certe espressioni piacciono poco. Le evitiamo con cura puntigliosa, ma purtroppo corriamo il rischio di dimenticare la sostanza. Siamo portati a mettere tutto sullo stesso piano, lasciando le preoccupazioni per l’anima… ai monaci, alle suore o, al massimo, alle persone anziane.

La “spiritualità giovanile salesiana”, alla scuola della Chiesa del Concilio, non divide più tra anima e corpo, come se a Dio interessasse l’anima soltanto. Afferma però con forza che una cosa, più importante di tutte le altre, c’è e non la possiamo di sicuro ignorare, se vogliamo vivere nell’amore di Dio: la decisione di fare di Dio il Signore della nostra esistenza, fino a consegnare a lui tutto noi stessi.

Per sapere cosa significa tutto questo nel ritmo concreto della nostra vita, dobbiamo penetrare più a fondo il mistero di Dio. In questo cammino, difficile e urgente, ci sentiamo in compagnia con tutti i grandi credenti, anche se utilizzeremo espressioni un po’ diverse da quelle che hanno usato loro.

Vivere di fede

Don Bosco sentiva la presenza di Dio come quella di un Padre che circonda continuamente d’amore e di protezione i suoi figli. Per questo amava i giovani che incontrava e amava la sua e la loro vita. Nei giovani e nella vita quotidiana scopriva continuamente i segni della vicinanza di Dio. La sua esistenza è piena di espressioni che, interpretate bene, portano verso queste conclusioni.

“Salve, salvando salvati!” salutava Don Bosco. “Se vuoi farti buono aiuta i tuoi compagni” raccomandava a Domenico Savio, facendo, in qualche modo eco al grande annuncio di Gesù: “Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 8.11).

E Domenico Savio traduceva subito: “Noi qui facciamo consistere la santità nello stare allegri”.
L’Incarnazione ci ha fatto riscoprire la nostra vita quotidiana come luogo della presenza di Dio. La costatazione è tanto decisiva che, un po’ alla volta, la “spiritualità giovanile salesiana” è diventata “la spiritualità del quotidiano”.

L’espressione è importante: è diventata un punto di riferimento comune e condiviso, capace di evocare un modello di vita cristiana. Dicendo “spiritualità del quotidiano”, non solo riconosciamo, come ricordava don Bosco, che non c’è bisogno di staccarsi dalla vita ordinaria per cercare il Signore. C’è di più: lo troviamo proprio nella nostra vita quotidiana. Lì egli è presente per la nostra vita e la nostra felicità.

“Assumere con coerenza l’aspetto ordinario dell’esistenza; accettare le sfide, gli interrogativi, le tensioni della crescita; cercare la ricomposizione dei frammenti nell’unità realizzata dallo Spirito nel Battesimo; operare per il superamento delle ambiguità presenti nell’esperienza giornaliera; fermentare con l’amore ogni scelta: tutto ciò è il passaggio obbligato per scoprire e amare il quotidiano come una realtà nuova in cui Dio opera da padre” (CG23).

La presenza di Dio nella vita quotidiana
L’affermazione è molto bella e tanto impegnativa. Spesso, però, sembra più facile scrivere cose del genere, che sperimentarle nel concreto. Come possiamo dire veramente che Dio è presente, visto che non lo vediamo direttamente e tante volte sembra persino assente dalla nostra storia, personale e collettiva? Forse anche don Bosco avrà vissuto momenti di buio. Sopraffatto dall’angoscia e dal dolore, qualche volta avrà gridato anche lui come l’uomo dei Salmi: “Dio, dove sei?”.
Non baste però dire che Dio è presente nella nostra vita. Dobbiamo cercare di scoprire il significato concreto di questa presenza misteriosa.

Sappiamo che esistono diversi modelli di presenza. E’ presente l’amico con cui stiamo conversando. Ed è ugualmente presente il ricordo di una persona cara, quando ci sentiamo travolti dalle difficoltà. La prima presenza è sul piano fisico; la seconda è legata solo all’intenzionalità.
La presenza di Dio nella vita dell’uomo non è qualcosa da costatare e possedere fisicamente. Non è però neppure una specie di ricordo nostalgico senza alcun riferimento reale.
Si tratta di una presenza vera e consistente, anche se tutta speciale, diversa dalla prima (la presenza fisica) e dalla seconda (il semplice ricordo).
Si realizza un rapporto misterioso tra ciò che si vede e si può costatare facilmente e quello che non riusciamo a vedere con gli strumenti che possediamo.

La nostra vita può essere descritta da quello che si vede e si costata. Abbiamo un nome, una famiglia, una storia. Abitiamo in un posto. Ci mettiamo a lavorare, cerchiamo degli amici, amiamo e soffriamo. Tutto questo è molto concreto e preciso.
C’è però qualcosa che ci sfugge, anche se è ugualmente vero e importante. Chi contempla il mistero di Gesù, scopre che nella sua umanità che tutti vedevano, Dio ha preso un volto ed è diventato parola. Essa si porta dentro un evento più grande, la sua ragione d’essere più intima: Dio comunicato all’uomo in un gesto d’impensabile gratuità. In lui e per mezzo suo anche in noi, un mistero più grande è presente in quello che vediamo.
Quello che riconosciamo per Gesù, vale anche per noi, per la nostra umanità e per la nostra vita. Lo ricorda continuamente il pensiero dell’Incarnazione.

Nella vita quotidiana quello che si vede e si manipola non è tutto. Non possiamo far coincidere quello che vediamo con la verità delle cose e delle nostre azioni. Quello che costatiamo, siamo e produciamo della nostra vita, è veramente “nostro”, frutto della fatica del nostro esistere. In esso però è presente un evento più grande, che ci permette d’essere quello che siamo.
A questo livello misterioso si colloca la presenza di Dio nell’umanità dell’uomo. Per questo, la presenza di Dio non esclude l’incertezza della ricerca, la sofferenza e il dolore, la tristezza della solitudine.

La fede: la vita quotidiana letta dalla parte del mistero
Per scoprire la presenza di Dio nella nostra vita e negli avvenimenti della nostra storia, ci vuole uno sguardo penetrante, capace di leggere dentro la realtà e arrivare fino al mistero che l’attraversa.
I cristiani chiamano “fede” questo sguardo penetrante che “toglie il velo” che copre la nostra esistenza.

La fede è la qualità della vita di un cristiano. Sulla fede si distingue. Per la luce della fede vive in questo mondo con il cuore al mistero che l’attraversa.
Ci sono molti modi di pensare alla fede.
Uno ci piace in modo specialissimo perché è servito per definire il ritratto di don Bosco: “Profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito Santo, viveva come se vedesse l’invisibile” (Cost. SDB 21).
Per comprendere cosa significa “vedere l’invisibile”, dobbiamo andare al documento da cui è ricavato questo modo di pensare alla fede.

I sacramenti della Chiesa

L’azione di salvezza di Dio nella nostra vita si realizza in tanti modi. Un padre che ama e vuole la vita e la felicità dei suoi figli, non ha certamente bisogno di chiedere consigli sul modo di agire.
Abbiamo scoperto con gioia che la vita quotidiana è il luogo della presenza di Dio. Questo significa riconoscere che la nostra vita è uno dei modi attraverso cui Dio si fa vicino a noi per salvarci. Questo modello di presenza non è però l’unico.

La tradizione cristiana ricorda altri modi, particolarmente solenni ed efficaci, della presenza di Dio per la nostra salvezza. Sono tanto speciali che di solito, quando i cristiani parlano di “sacramenti” della presenza di Dio, pensano soprattutto ad essi.

Sono la Parola “scritta” di Dio, la Chiesa come luogo di una comunione oltre “la carne e il sangue” (come dice una bella pagina del Vangelo di Giovanni: Gv. 1, 13) e soprattutto i sette sacramenti.

Un cambio di prospettiva teologica
La tradizione salesiana ha riservato ai sacramenti una funzione tutta speciale. Per don Bosco rappresentano i punti di forza (i “pilastri”, diceva lui) dell’educazione cristiana. Per essere fedeli a don Bosco, come abbiamo fatto con gli altri temi dell’esistenza cristiana, dobbiamo continuare con quell’atteggiamento di confronto culturale, di cui già abbiamo parlato.

La fede e il senso religioso diffuso spingevano a pensare alla salvezza in modo drammatico. La vita era descritta come una lotta tra il bene e il male. Chi stava dalla parte del bene, s’impegnava con tutte le sue forze per assicurare interventi frequenti ed efficaci a favore della salvezza.
I “sogni” di don Bosco e tante sue raccomandazioni erano pieni di questa sensibilità.
Oggi abbiamo un modo più sereno di vedere le cose. L’Incarnazione ci ha aiutato a scoprire l’amore di Dio, più forte del peccato, e ci ha restituito il diritto di amare la nostra vita quotidiana. Per questo, non ci piace dividere eccessivamente il mondo di Dio e da quello degli uomini. Non ci piace pensare che i sacramenti siano degli interventi, un poco magici, che ci strappano dalla vita quotidiana e ci portano nel mondo sacro.

La prospettiva dell’Incarnazione ha aiutato anche a scoprire la presenza di Dio “diffusa” nella vita quotidiana. La “spiritualità giovanile salesiana” parla spesso della vita quotidiana in termini di sacramento.
Non possiamo però sminuire l’importanza dei sacramenti e la loro centralità nella vita cristiana, con la scusa che tutta l’esistenza è piena della presenza di Dio che salva. Li dobbiamo invece riscoprire da una prospettiva nuova. Anche questo è un modo di dire la nostra fedeltà a don Bosco e al suo insegnamento.
E’ difficile trovare parole per spiegare quello che continua a restare un po’ misterioso. Qualche volta pensiamo di averle trovate… e poi ci accorgiamo che sono delle belle frasi, che dicono però davvero poco.
Ancora una volta, l’amore è il modo più eloquente per dire qualcosa di più sui sacramenti e sul rapporto che li lega alla vita quotidiana.

I sacramenti: un tempo speciale per la salvezza
C’è un’altra dimensione importante da ricordare. Tutta la tradizione cristiana lo dice con forza. E sarebbe grave dimenticarsene, presi dal fervore di immaginare prospettive un po’ diverse dal solito.
Normalmente il rapporto tra cosa e significato è un puro gioco convenzionale, dove “facciamo finta” di realizzare qualcosa di nuovo. Ma è solo un modo di fare che non cambia la realtà delle cose. Chi è lontano resta lontano; il silenzio continua ad avvolgere la realtà; ciascuno è inesorabilmente alle prese con i suoi limiti e le sue responsabilità.

Eucarestia e Riconciliazione
Gli esempi ci hanno portato verso i due sacramenti con cui siamo in contatto più frequente: l’Eucaristia e la Riconciliazione.

Attraverso la Riconciliazione e l’Eucaristia, la comunità ecclesiale si proclama davanti al mondo come il luogo in cui Dio gratuitamente opera la salvezza per tutti e testimonia la reale possibilità di vivere la vita quotidiana come accoglienza di questo dono. Denuncia la presunzione di poter vivere senza la salvezza di Dio, ricordando ad ogni uomo che egli è debitore, in tutto e per tutto, all’amore di Dio che gli si dona in Gesù Cristo. Mette la responsabilità personale al centro di ogni incontro di salvezza, perché riconosce di essere, essa stessa, frutto della salvezza di Dio. Rassicura la timida speranza dell’uomo che invoca salvezza, perché propone in modo autorevole le fonti sicure dell’azione salvifica di Dio.

L’Eucaristia fonda la comunità, la ricollega nell’amore e rilancia la sequela. Diventa (come ricorda ai Salesiani il CG23) “un significativo momento dell’edificio educativo del Sistema Preventivo. Dall’Eucarestia infatti il giovane apprende a riorganizzare la sua vita alla luce del mistero di Cristo che si dona per amore. Impara a sottometterla, prima di tutto, alle esigenze della comunione, vincendo egoismi e chiusure. E’ portato a ricercare, poi, la donazione generosa di sé, aprendosi alle necessità dei compagni e impegnandosi nelle attività apostoliche, adeguate alla sua età e maturazione cristiana”. Più in concreto ancora, come ricordano le Costituzioni FMA (art. 40), “Alimentandosi alla mensa della sua Parola e del suo Corpo, diveniamo con Lui pane per i nostri fratelli”.

La Riconciliazione salva la nostra povertà e ci rende nuovi, nello spirito. La “spiritualità giovanile salesiana” fa molto affidamento sulla celebrazione di questo sacramento e dice con forza la necessità di rimetterlo al posto adeguato nella vita cristiana. Lo esigono i molti frutti educativi che dal sacramento scaturiscono: “i giovani sostenuti dall’amore che comprende e perdona trovano la forza per riconoscere il loro peccato e la propria debolezza, bisognosa di sostegno e di accompagnamento. Imparano a resistere alla tentazione dell’autosufficienza. Offrono il perdono come ricambio della Riconciliazione ricevuta. Si educano al rispetto delle persone. Si formano una coscienza retta e coerente” (CG23).

Il clima di festa
L’attenzione all’amore liberante e unificante di Dio dà una tonalità particolare a questi due sacramenti che sono, in modo speciale, pieni del clima della festa, della gioia, della speranza. Non c’è Eucaristia e Riconciliazione salesiana senza la festa che nasce dall’esperienza continuamente rinnovata d’incontrare il Signore della vita che vince il male e il peccato.

Senza l’Eucaristia, non è possibile comprendere l’esperienza e la vita di Valdocco e di Mornese.
Don Bosco rileva con molta insistenza la centralità e l’importanza che essa ha nel suo sistema educativo.
L’Eucaristia è per Don Bosco una realtà che lo tocca nel più vivo del cuore. Sacerdote e educatore è convinto che l’unico maestro e il primo artefice dell’educazione dei giovani sia il Signore. Si preoccupa perciò che essi incontrino personalmente e con frequenza il Cristo risorto nell’Eucaristia e che si preparino ad essa attraverso la Confessione.

Maria, il più bel ritratto di cristiano

Vivere di fede è riprodurre, nella nostra vita quotidiana, lo stile d’esistenza che ha segnato i grandi santi. Vivere, come don Bosco, la nostra esistenza come se vedessimo l’invisibile.
Di questo siamo tutti convinti e cerchiamo di immergerci, sempre più profondamente, nel mistero di Dio per dare alla nostra vita quotidiana il tono e lo stile che viene dal mistero. Purtroppo non c’è solo l’inquietante problema della coerenza: non è davvero facile valutare cose, persone e avvenimenti dalla parte del mistero ed è duro e faticoso mostrare con i fatti il senso di quest’esperienza. Le difficoltà sono anche dalla parte della scoperta: il mistero di Dio è così grande, che riusciamo a decifrarne solo qualche frammento.
Spesso siamo incerti sulla qualità della nostra vita. Non sappiamo se un certo modo di essere e di fare è meglio del suo contrario. Le espressioni con cui cerchiamo di sognarci sono sempre molto povere, cariche soprattutto dei nostri limiti e delle nostre paure.

L’Ausiliatrice
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia una mano.
Sembra strano… ma è così: noi siamo gente sicura, non ci piace che qualcuno ci insegni cosa dobbiamo fare e cosa dobbiamo evitare… eppure nelle cose che contano di più abbiamo bisogno di una mano sicura.
Questa convinzione ha aiutato la “spiritualità giovanile salesiana” a riscoprire Maria e a rilanciare il grande amore a Maria che la Famiglia salesiana ha ereditato da don Bosco e da Madre Mazzarello.

I cristiani hanno riservato un posto specialissimo a Maria nella loro vita. Don Bosco poi aveva un amore filiale nei confronti di Maria. A lui ha fatto eco Madre Mazzarello, con lo stesso entusiasmo e con una sensibilità tutta speciale. Ci hanno insegnato a riconoscerla come Ausiliatrice: aiuto, forte e potente, nei momenti di difficoltà. Il ricordo di Maria Ausiliatrice era legato soprattutto a preoccupazioni di tipo fisico, quelle in cui una mamma si fa in quattro per soccorrere il figlio che ama. Ma è una preoccupazione grave e inquietante anche l’incertezza sul senso della propria vita e soprattutto il dubbio sullo stile d’esistenza da realizzare per vivere fedeli al mistero che la nostra vita si porta dentro.

Per la “spiritualità giovanile salesiana” Maria ha un nome preciso: è l’Ausiliatrice. Ricorriamo a lei nei momenti di difficoltà. Soprattutto la sentiamo vicina quando, come capita oggi, siamo soprattutto incerti sul senso della nostra esistenza.

Viviamo in tempi di trasformazioni e d’incertezze, di trepidazione e d’entusiasmo per il nuovo che avanza. Maria, l’Ausiliatrice, ci indica la via da percorre e ci infonde speranza e consolazione. Abbiamo bisogno di un aiuto sicuro e incoraggiante al livello, tanto difficile, del senso della vita e della speranza. Maria è Ausiliatrice perché ci mostra il volto di un cristiano riuscito e impegnato, lei che è il più bel ritratto di cristiano.

VIVERE LA PASSIONE PER IL REGNO

L’incontro con Gesù e la confessione che solo lui è il Signore, vissuta nella Chiesa, sono la risposta che ogni cristiano dà alla scoperta affascinante dell’amore di Dio.
Tutto questo suscita un’esperienza nuova di vita: viviamo tutta la nostra esistenza come sequela di Gesù.

Seguire Gesù non è come mettersi al seguito di qualsiasi altro maestro. E’ invece qualcosa di profondamente originale, come una folata improvvisa di vento che butta all’aria tutto quello che avevamo cercato di raccogliere in ordine.
Gesù non ci chiede, prima di tutto, un rapporto affettivo nuovo nei suoi confronti. E nemmeno ci chiede la decisione di consegnarsi totalmente a lui. Non gli basta né l’una cosa né l’altra. Vuole molto di più: la condivisione appassionata della causa che ha riempito la sua vita e l’ha trascinata fino alla morte.

La vita cristiana è “vocazione”: decisione coraggiosa di decentrare la propria esistenza verso il regno di Dio, il trionfo pieno della vita sulla morte, nel nome del Dio della vita.
L’esperienza di fede confessata si trasforma in un’esperienza di fede vissuta.

La vita è vocazione

Tutto il Vangelo ci parla della richiesta che Gesù rivolge ai suoi amici: il coraggio di piegare tutta la propria esistenza verso gli altri, diventando persone capaci di accogliere il grido che sale dalla loro vita. Una pagina però merita d’essere ricordata in modo speciale, perché le riassume tutte.
Ascoltiamo il racconto di Luca.

“Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”.

Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese:
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”” (Lc. 10, 25-37).

“Cosa devo fare per avere la vita eterna?”, chiede il dottore della legge con una espressione che nelle Scritture ebraiche indica la “cosa” che conta di più: la verità della propria esistenza secondo il progetto di Dio. Gesù accoglie la domanda e risponde, rimandando alle due condizioni fondamentali suggerite dalla Legge: l’amore a Dio e l’amore verso il prossimo.

Con questo richiamo tutto sembrava risolto. E invece qui si scatena la novità del Vangelo.
Il dottore della legge riprende la conversazione sul tema in cui riconosce di avere dei dubbi: chi è il prossimo?
Gesù risponde, capovolgendo le posizioni. Non si tratta di elencare “chi” è prossimo e chi non lo è, definendo la situazione oggettiva di partenza. La questione non riguarda gli altri, ma l’atteggiamento personale nei confronti di chiunque. Gesù chiede infatti di “farsi prossimo”. Trasforma la situazione fisica di vicinanza o di lontananza, in una vocazione, che interpella la libertà e la responsabilità personale.

L’invito di Gesù è molto impegnativo. L’altro è spesso senza voce: non ha nemmeno la forza di chiedere aiuto. Eppure, in questa sua situazione, egli è sempre un forte imperativo per ogni persona. Gesù gli dà voce, invitando ad accogliere il grido silenzioso di chi soffre e ha bisogno di sostegno.
La parabola ci ricorda perciò che costruiamo la nostra esistenza solo se accettiamo di “uscire” da noi stessi, decentrandoci verso l’altro. L’esistenza nella concezione evangelica, è quindi un esodo verso l’alterità e un superamento d’ogni chiusura nel cerchio ristretto d’ogni egoismo personale, di gruppo e di nazione. Esistiamo per amore e siamo impegnati a costruire vita attraverso gesti d’amore.
Noi, come il samaritano, abbiamo la vita eterna, perché nell’atto di amore ci incontriamo con Dio, l’unica ragione della nostra salvezza.

Dio è il fondamento supremo di questa vocazione all’amore che viene dal silenzio dell’altro. Lo manifestiamo, lo conosciamo e lo amiamo nella misura in cui accogliamo, serviamo e amiamo il povero con tutte le nostre risorse.

La vocazione: costruire il regno di Dio
Gesù non si è accontentato di rivelarci il senso della nostra vita e la direzione verso cui orientarci per viverla in modo serio e autentico. Nelle sue parole e, soprattutto, nell’insegnamento concreto della sua vita, ha messo davanti a noi il riferimento normativo di ogni vocazione cristiana: il regno di Dio. Quello che abbiamo scoperto per la Chiesa, riguarda direttamente ogni cristiano.
Gesù è l’uomo del regno di Dio, perché ha fatto della causa della vita, “piena e abbondante” per tutti (Gv. 10, 10), la “perla preziosa” per acquistare la quale bisogna essere disposti a vendere tutto il resto (Mt. 13, 45-46).

Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l’uomo. Egli vuole un futuro significativo per l’uomo. Fa della vita e della felicità dell’uomo la ragione e l’espressione della sua “gloria”.

L’uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vita e la speranza.
Consapevole che i suoi problemi sono il problema di Dio stesso, il credente consegna a lui la sua fame di vita e di speranza.

Il Dio di Gesù è un Dio di cui ci si può fidare. Lo attestano le cose meravigliose compiute per il suo popolo e soprattutto quelle operate in Gesù.
Dove appare lui, l’Uomo del regno, scompare l’angoscia, la paura di vivere e di morire; ritorna la libertà e la gioia di vivere, nel nome di Dio.
L’ultima convincente parola sul regno di Dio Gesù l’ha pronunciata sulla croce, quando ha affidato a Dio la sua esistenza.

Consegnato alla morte, perché tutti abbiano la vita, Gesù ha ritrovato la vita e la speranza per noi. Il Risorto è il segno definitivo che il nostro Dio è tutto per la vita e la felicità dell’uomo.
La causa di Gesù è dunque la vita piena e abbondante dell’uomo nel nome di Dio: un uomo aiutato e sollecitato a camminare a testa dritta, capace di vivere con gioia nella città di tutti, che si affida a Dio nella speranza, perché solo in Dio possiamo non avere più nessuna paura della morte.
Il compito che il Padre gli ha affidato, Gesù lo consegna ai suoi discepoli. Gesù dice ai suoi amici: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv. 20, 21). Anello dopo anello, viene costruita una grande catena di persone, impegnate per la salvezza del mondo. I discepoli chiamano altri e li mandano. E così la catena dei chiamati si allunga: i nuovi discepoli chiamano altri con la stessa passione con cui hanno pronunciato il loro sì all’invito, e li mandano.
Oggi Gesù, i discepoli suoi, i credenti della prima ora della Chiesa, i nostri amici e i nostri educatori chiamano te e me. E ci mandano. Il compito che ci è affidato è lo stesso che ha appassionato l’esistenza di Gesù: la causa della vita.

Su questo compito il cristiano misura la sua esistenza. Siamo ed esistiamo per continuare a servire la vita, come ha fatto Gesù.

Vocazioni speciali per il regno di Dio
La causa di Gesù è il regno di Dio. Meditando sullo stile con cui Gesù ha realizzato il regno di Dio, scopriamo più intensamente il senso della nostra vita: i compiti che ci sono affidati e lo stile con cui possiamo assolverli.

Nel nostro modo comune di dire, quando si parla di re e di regni si pensa subito a possedimenti e a persone che sono i padroni di queste cose (o fanno finta di esserlo). Ai tempi di Gesù era la stessa cosa… e persino peggio.
Gesù, in quel momento della vita in cui non c’è proprio nessuna voglia di scherzare (cfr. Gv. 18), ci tiene a ricordare che lui è re, ma non come gli altri; il suo regno non è come gli altri regni di questa terra.

La diversità è sostanziale. Lui è re perché si mette a servire fino a dare la propria vita, come gesto supremo d’amore. Il regno di Dio è la vita piena e abbondante di ogni persona.
Non è solo vittoria della vita sulla morte. E’ la vittoria per la potenza d’amore di Dio; ed è una vittoria conquistata nell’amore che sa donarsi fino alla morte.
Impegnarsi per il regno di Dio significa impegnarsi per la vita contro la morte, chiamando in causa direttamente Dio e il suo progetto. Quando c’è di mezzo la vita, non è possibile mettere Dio fuori gioco, come se tutto dipendesse solo da noi. Purtroppo, è tanto facile dimenticarselo. Diventiamo presuntuosi, pieni della tentazione dell’onnipotenza, con il rischio, tutt’altro che remoto, di allargare i confini della morte.

Per evitare questa tentazione pericolosa e terribile, ci vuole qualcuno che si ponga al servizio della vita con un coraggio e una radicalità, capaci di testimoniare le esigenze irrinunciabili del Vangelo. Per questo, nella Chiesa ci sono persone generose, che realizzano una vocazione speciale.
Non si può fare un catalogo ufficiale di queste persone speciali, come si usa nella nostra società con gli albi professionali. Alcune vocazioni sono dense però di una responsabilità tutta particolare nella logica del regno di Dio. Queste vocazioni sono, per esempio, gli educatori e le educatrici, gli animatori e le animatrici dei gruppi giovanili, i catechisti e le catechiste; con una radicalità specialissima, coloro che hanno accolto il misterioso invito di Gesù a seguirlo fino in fondo: i sacerdoti e i religiosi e le religiose.

Queste persone sono come una manifestazione speciale di quello che ciascuno è chiamato a realizzare. Sono una specie di manifestazione sacramentale, nella Chiesa e come è la Chiesa, del progetto di salvezza di Dio e della logica con cui Gesù lo sta realizzando. Essi sono uomini e donne del presente, uguali in tutto a tutti gli altri uomini. Si ancorano nel passato per proclamare le meraviglie di Dio per il suo popolo. E si lanciano verso il futuro, anticipandolo nei piccoli segni della vita quotidiana, per attestare la radice della nostra speranza.

UNA STORIA CHE CONTINUA

La “spiritualità giovanile salesiana” è “contagiosa”: ha creato un movimento che sta affascinando giovani, Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice. Abbiamo raccontato un pezzo di questa nostra storia, perché vogliamo che la storia continui per la vita e la speranza di tanti altri giovani.

Il grido dei giovani

E’ accaduto per Don Bosco e Madre Mazzarello. Capita la stessa cosa anche oggi. Sentiamo che Dio c’interpella attraverso il grido di tanti giovani: il grido della frammentarietà e della divisione interiore, della solitudine e dell’incapacità di comunicare, il grido dell’impossibilità di inserirsi nella società per la mancanza di lavoro o di mezzi per continuare gli studi, il grido della violenza che sempre di più molti ragazzi subiscono, il grido di esperienze che a poco a poco portano alla droga e all’alcol, il grido della “vita” in una parola. La fame che cerca il pane, l’oppressione che cerca libertà, la solitudine che cerca comunione, la profanazione che cerca dignità, lo smarrimento che cerca sicurezza, l’assurdo che cerca un senso, la violenza che cerca la pace… (CG XXIII p. 88 e CG XIX p. 1819).

Il grido è gemito dello Spirito che abita in ogni persona, all’opera per generare figli del Padre.
Il grido è essenzialmente “bisogno di salvezza”.
Noi crediamo che solo Gesù il Signore è la salvezza. Questo grido diventa per noi sfida, appello, invocazione alla solidarietà, chiamata alla responsabilità.

Lo ricorda con forza il Papa: “Tocca a voi, ora, chiamati a continuare l’eredità del Carisma salesiano, collaborare all’avvento di una nuova fioritura della santità giovanile in ogni parte del mondo… Non vi sembri troppo alta la missione che si profila dinanzi a voi.

Essa è certamente ardua, richiede generosa dedizione, profonda interiorità, ascolto della Parola di Dio, accoglienza dell’iniziativa divina, audacia di risposte coerenti” (Giovanni Paolo II).

Ci sentiamo chiamati a dare voce a coloro che non hanno voce, a diventare poveri con i poveri, ad assumere la loro causa, a cercare la giustizia per coloro che soffrono ingiustizia, a collaborare per trasformare una realtà che è ancora lontana dal regno di Dio (cf. CG XXIII, p. 88).

“Nell’attuale situazione storica in cui è messa in discussione l’identità femminile e maschile, sentiamo l’urgenza di impegnarci ad educare le giovani perché siano portatrici non solo di nuove esigenze, ma anche di nuove risorse, protagoniste coscienti nella costruzione di una società a misura di persona” (CG XIX FMA, 40).

La storia continua…

Quello che conta è una cosa sola: la vita e la speranza nel nome del Signore. La storia della “spiritualità giovanile salesiana” può suscitarla e consolidarla. Per questo l’abbiamo raccontata: un dono che gli amici si scambiano con la speranza di suscitare altri narratori.

Chi ci sta, fa quello che tanti Salesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice e giovani stanno facendo: racconta quello che ha vissuto, scoperto e compreso. Cerca di farlo con i fatti; e si fa aiutare con le parole, per sostenere i fatti e per interpretarli nella direzione giusta.

S’accorge che raccontare una storia del genere è fatica e responsabilità. Racconta perché gli è nata dentro una gioia grande. Non la può soffocare. Racconta con timore e tremore, perché sa di parlare prima di tutto di sé e per sé. Ma non tace: le sue parole hanno la potenza della sua debolezza (2 Cor. 12, 9) e hanno la forza dei tanti testimoni che hanno già giocato tutta la loro esistenza, affascinati dalla storia incontrata.

Racconta con una sola grande passione: tutti riscoprano vita e felicità, quella vera e autentica che Gesù ha regalato al mondo, raccontando la storia di Dio, il Padre buono e accogliente.